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Published 19 Agosto 2025 - in Knowledge Center

Employee retention: strategie vincenti | Wyser

Employee retention: come ridurre il turnover

Ogni volta che un collaboratore lascia un’azienda, l’impatto è più profondo di quanto possa apparire a prima vista: non si perdono solo competenze tecniche, ma anche memoria organizzativa, stabilità nei team e continuità nei progetti. A ciò si sommano i costi diretti e indiretti legati al turnover: attività di recruiting, processi di onboarding, calo della produttività e, talvolta, un deterioramento del clima aziendale. Secondo Gallup, il costo medio per la sostituzione di un dipendente può arrivare fino al 150% del suo salario annuale [1].

In un mercato del lavoro contrassegnato da forte mobilità, competizione globale e aspettative in evoluzione, trattenere i professionisti chiave è diventato un vantaggio competitivo essenziale. Per questo, i manager sono oggi chiamati a generare ambienti di lavoro capaci di nutrire appartenenza, motivazione e fiducia, trasformando la retention in una leva strategica per la sostenibilità del business e il suo sviluppo nel lungo periodo.

INDICE DEI CONTENUTI

Cos’è l’Employee Retention?

L’Employee Retention rappresenta la capacità strategica di un’organizzazione di trattenere i propri professionisti nel tempo, limitando il turnover e costruendo un contesto lavorativo in cui le persone scelgono consapevolmente di restare. Non si tratta semplicemente di “far rimanere i dipendenti”, ma di coltivare una relazione professionale duratura e sostenibile, basata sulla motivazione, sul riconoscimento e sull’allineamento tra obiettivi individuali e aziendali.

Questo concetto assume un’importanza crescente in un mercato del lavoro sempre più movimentato, dove la fidelizzazione del capitale umano diventa una leva competitiva tanto quanto l’innovazione tecnologica. Le organizzazioni che investono nella retention non si limitano a ridurre i costi legati al turnover, ma presidiano la continuità della conoscenza interna, rafforzano la cultura aziendale e incrementano la produttività attraverso un clima di fiducia e appartenenza.

L’Employee Retention si concretizza attraverso strategie misurabili e coerenti, che agiscono sui principali driver motivazionali: dalla valorizzazione delle persone alla flessibilità organizzativa, dalla formazione continua a sistemi di feedback autentici, fino a percorsi di carriera trasparenti.

 Le cause dell’elevato turnover

I fattori che spingono un dipendente a lasciare un’organizzazione sono molteplici e spesso non riconducibili a un’unica motivazione isolata. Tra le ragioni più ricorrenti troviamo: una retribuzione percepita come inadeguata rispetto alle responsabilità o al mercato; una scarsa qualità delle relazioni con colleghi o manager; l’assenza di prospettive di crescita professionale e personale; un’organizzazione rigida e poco inclusiva, incapace di adattarsi alle esigenze delle persone; la mancanza di riconoscimento sincero del contributo individuale.

In molti casi, il desiderio di lasciare non nasce da un impulso improvviso, bensì da una crescente incompatibilità tra individuo e ambiente organizzativo — una disconnessione che si accumula nel tempo, fino a rendere inevitabile la rottura. Proprio come nelle relazioni personali, la fine del rapporto lavorativo è spesso il sintomo di un disequilibrio che non è stato ascoltato né gestito.

Secondo PwC, il 26% dei lavoratori a livello globale si dice molto propenso a cambiare lavoro nei prossimi 12 mesi. Tra i motivi principali, spicca la mancanza di opportunità di crescita e sviluppo professionale, indicata dal 47% degli intervistati. Le persone non cercano solo un impiego, ma un percorso: desiderano apprendere, evolvere, vedere riconosciuto il proprio potenziale e costruire un futuro all’interno dell’azienda. Quando questa possibilità viene meno, il senso di stagnazione prende il sopravvento [2].

Ma non si tratta solo di avanzamento di carriera. Uno dei fattori che più incidono sulla decisione di dimettersi è la qualità della leadership. Una gestione inefficace – o peggio, tossica – autoreferenziale, poco empatica e priva di trasparenza, mina il benessere psicologico e la fiducia. Secondo una ricerca di LinkedIn, la sicurezza emotiva e relazionale è oggi uno dei principali driver di fidelizzazione. E il dato parla chiaro: nel 2021, il 57% dei dipendenti che si sono dimessi ha dichiarato di averlo fatto per mancanza di trasparenza nelle decisioni aziendali e comportamenti inappropriati da parte dei dirigenti [3].

A offrire una lettura strutturata della motivazione al lavoro è la teoria dei “Due Fattori” formulata da Frederick Herzberg [4], psicologo e teorico dell’organizzazione. Il suo contributo resta ancora oggi uno dei pilastri nella progettazione di strategie efficaci di Employee Retention. Secondo Herzberg, esistono due categorie distinte di elementi che influenzano il comportamento dei lavoratori:

  • Fattori motivazionali, legati al contenuto intrinseco del lavoro, come il senso di responsabilità, la possibilità di sviluppo professionale, il riconoscimento, l’autonomia decisionale e la coerenza tra i compiti assegnati e le aspirazioni individuali;
  • Fattori igienici, che non motivano direttamente, ma la cui assenza genera insoddisfazione e disagio: retribuzione, sicurezza del posto di lavoro, condizioni ambientali, relazioni interpersonali e politiche aziendali.

Solo quando entrambe le dimensioni vengono curate – ovvero quando l’ambiente garantisce condizioni adeguate e, al contempo, offre sfide professionali significative – si crea un contesto fertile per la permanenza e l’engagement dei dipendenti.

Perché l’Employee Retention è un fattore critico di successo

La retention non è un semplice “nice to have”, ma un imperativo di business. Trascurarla significa esporsi a costi nascosti che, nel tempo, erodono la competitività e gli utili aziendali. Il turnover, infatti, non comporta solo la perdita di una risorsa: come anticipato, ogni uscita genera una catena di costi spesso non immediatamente visibili, ma altamente impattanti.

C’è un primo fronte, diretto e facilmente quantificabile: il costo per il recruiting, che include annunci a pagamento, tempo dedicato dai recruiter interni, coinvolgimento dei manager e, non di rado, commissioni per società esterne. Poi c’è la fase di onboarding e formazione, durante la quale la nuova risorsa è ancora improduttiva e necessita dell’affiancamento di colleghi più esperti. Questo periodo di transizione comporta una perdita netta di produttività e un rallentamento dei processi, mentre il team residuo si ritrova a colmare i vuoti operativi, con impatti negativi su motivazione e coesione. Dopo turnover rilevanti, le aziende osservano un calo di produttività fino al 20%, dovuto all’aumento delle responsabilità sul team residuo e al demotivamento generale [5].

Ma i costi più gravi sono quelli di lungo periodo. Come sottolinea Harvard Business Review, le uscite frequenti – anche quando presentate come ristrutturazioni o ottimizzazioni – indeboliscono l’apprendimento organizzativo, danneggiano la cultura aziendale e minano il senso di fiducia collettiva [6]. Le aziende che licenziano o che non investono nella retention finiscono col creare un ambiente instabile, dove i migliori iniziano a guardarsi attorno.

Al contrario, trattenere i professionisti nel tempo genera valore crescente: le persone consolidate sono più produttive, lavorano meglio insieme, conoscono a fondo processi, strumenti e clienti, contribuendo in modo determinante a costruire un servizio più solido e competitivo. Una forza lavoro stabile rafforza la cultura interna, consolida le relazioni tra colleghi e migliora il passaggio di know-how tra senior e junior.

In questo scenario, i profili senior rappresentano un una risorsa preziosa. Non solo garantiscono continuità e affidabilità operativa: sono i custodi della cultura aziendale, della memoria organizzativa e delle competenze strategiche maturate nel tempo. Secondo un recente report Wyser, il 65% dei lavoratori over 50 si dichiara soddisfatto del proprio ruolo, soprattutto per l’autonomia e la responsabilità conquistate. Tuttavia, il 36% è aperto a nuove opportunità e il 13% dei manager di alto livello è già attivamente alla ricerca di un nuovo impiego: segnale chiaro che, se non valorizzati, anche i talenti più esperti sono a rischio fuga.

Ignorare la retention dei senior significa rinunciare a una leadership solida proprio nel momento in cui serve di più. Il 40% dei dirigenti italiani ha più di 55 anni e, per l’80% dei decision maker, sono proprio gli over 50 i più adatti a guidare le aziende. Il 92% riconosce nella loro esperienza un asset strategico, mentre il 78% li ritiene superiori in capacità analitica e problem solving rispetto ai colleghi più giovani.

Siamo davanti a una trasformazione demografica irreversibile che sta ridisegnando i ruoli e gli equilibri interni. Le aziende che sapranno trattenere i loro senior – e integrarli con le nuove generazioni – saranno in grado di costruire un vantaggio competitivo solido, sostenibile e durevole.

Strategie efficaci per un piano di Employee Retention di successo

Un piano di Employee Retention efficace è il risultato di un insieme di strategie interconnesse, coerenti e ben orchestrate. Non esiste una formula unica: ogni azienda deve costruire il proprio approccio in base alla cultura organizzativa, al settore e ai profili professionali coinvolti. Tuttavia, ci sono pilastri condivisi che ogni impresa può (e dovrebbe) considerare.

Creare percorsi di carriera e opportunità di sviluppo

Un elemento a cui i più non posso rinunciare è quello legato alla prospettiva, al futuro: le persone vogliono crescere, apprendere, migliorarsi. Non solo per ambizione individuale, ma per sentirsi parte di una traiettoria significativa. La formazione continua, strutturata in programmi chiari e accessibili, è uno degli investimenti più efficaci in termini di retention. I piani di sviluppo individuale permettono di personalizzare il percorso di crescita in base a competenze, obiettivi e potenzialità di ciascuno.

A questo si affiancano iniziative come il mentoring, che favoriscono la trasmissione informale del know-how e rafforzano il senso di comunità professionale. Ma soprattutto, è essenziale garantire percorsi di carriera interni chiari, trasparenti e meritocratici. Come sottolinea Forbes, l’assenza di opportunità di avanzamento è una delle principali cause di dimissioni, soprattutto tra i profili più competenti e motivati [7].

Offrire retribuzione e benefit competitivi

Offrire pacchetti retributivi allineati al mercato non è più un plus, è un prerequisito. Secondo un altro studio di Forbes, la percezione di una retribuzione equa influisce direttamente sulla soddisfazione e sulla lealtà del dipendente, in particolare nei settori ad alta concorrenza [8].

Ma il vero vantaggio competitivo risiede nella capacità di integrare benefit concreti e personalizzati: assicurazione sanitaria, piani pensionistici, buoni pasto, abbonamenti culturali, formazione extra-lavorativa. Sempre più centrale è anche il tema del welfare aziendale, che oggi include supporto psicologico, consulenza finanziaria, servizi per la genitorialità e, soprattutto, flessibilità organizzativa.

Coltivare una cultura aziendale positiva e inclusiva

La cultura non si impone dall’alto, ma si costruisce nel tempo, attraverso pratiche quotidiane e leadership coerenti. Una cultura aziendale fondata sul rispetto, sull’ascolto e sulla collaborazione è oggi uno dei fattori più incisivi nella decisione di rimanere o andarsene.

Inoltre, i dipendenti che percepiscono un ambiente tossico, poco trasparente o esclusivo tendono a disimpegnarsi o a dimettersi nel medio termine. Per questo, le iniziative di Diversità, Equità e Inclusione (DEI) non devono essere percepite come esercizi di branding, ma come elementi fondanti dell’identità aziendale. Quando ogni persona si sente valorizzata, riconosciuta e parte di un progetto comune, il senso di appartenenza cresce. E con esso, la retention [8].

Promuovere un sano equilibrio vita-lavoro

Secondo una ricerca di LinkedIn, il 63% dei professionisti a livello globale considera l’equilibrio vita-lavoro il fattore più importante nella valutazione di una nuova opportunità lavorativa, superando per rilevanza persino la retribuzione (60%). Questo dato mostra chiaramente come il benessere personale sia ormai percepito come parte integrante della realizzazione professionale.

Le aziende che vogliono ridurre il turnover devono andare oltre le dichiarazioni d’intenti e attuare politiche concrete: smart working flessibile, orari personalizzati, settimana lavorativa ridotta, congedi estesi, giornate di benessere e il sempre più discusso diritto alla disconnessione sono misure che contribuiscono in modo tangibile a migliorare la qualità della vita lavorativa.

Inoltre, le iniziative che supportano il benessere psicologico – come sessioni di mindfulness, counseling aziendale o giornate dedicate al digital detox – non sono più percepite come “extra”, ma come segnali concreti di un’attenzione autentica alla persona. Il messaggio che passa è chiaro: il dipendente non è solo un produttore di valore, ma un essere umano complesso da sostenere nella sua interezza.

In un mercato dove la flessibilità è diventata sinonimo di fiducia e rispetto reciproco, le aziende che adottano una visione evoluta del work-life balance non solo fidelizzano i propri talenti, ma costruiscono una cultura più resiliente e attrattiva [9].

Implementare feedback continuo e riconoscimento

Le persone hanno bisogno di sentirsi ascoltate, viste, riconosciute. Superare il modello della valutazione annuale e adottare un sistema di feedback continuo è una delle trasformazioni più efficaci per aumentare l’engagement e la motivazione. Incontri 1-to-1 regolari, check-in mensili, conversazioni informali ma costanti rappresentano occasioni preziose per allineare aspettative, individuare criticità e valorizzare i risultati.

Uno studio di Harvard Business Review ha rilevato che i dipendenti che interagiscono con i loro superiori per più di sei ore alla settimana mostrano un livello di engagement superiore del 30% rispetto a chi ha contatti minimi. Il tempo del manager con il team non è mai tempo sprecato: è un investimento relazionale [10].

Allo stesso modo, i programmi di riconoscimento hanno un impatto decisivo. Come evidenziato da Gallup, il riconoscimento è uno dei fattori più potenti per stimolare la retention: quando un dipendente si sente apprezzato, è quattro volte più probabile che resti in azienda [1].

Come misurare l’Employee Retention: le metriche chiave

Per migliorare l’Employee Retention, è fondamentale saperla misurare in modo preciso. Le aziende che monitorano regolarmente i dati legati alla permanenza dei propri dipendenti possono identificare segnali di rischio, individuare aree di miglioramento e attuare strategie più mirate. A fianco delle metriche quantitative tradizionali, è importante integrare strumenti qualitativi che permettano di ascoltare la voce delle persone.

Calcolare il tasso di Retention (Retention Rate)

Una delle metriche più semplici ed efficaci per valutare la capacità dell’organizzazione di trattenere i propri collaboratori è il tasso di retention, calcolato con la seguente formula:

Retention Rate = (numero di dipendenti rimasti alla fine del periodo / numero di dipendenti all’inizio del periodo) × 100

Un tasso elevato indica stabilità e capacità di trattenere le persone, ma non esiste una soglia valida per tutti: il dato va sempre letto in relazione al settore, al ruolo, all’area geografica e alle dinamiche di mercato. Secondo il benchmark 2024 di LinkedIn, ad esempio, il tasso medio di retention nei settori knowledge-based si aggira intorno all’82%, con variazioni significative tra le industrie [9]. Tuttavia, monitorare il trend nel tempo e confrontarlo con realtà simili per valutare la bontà delle politiche adottate è quello che può offrire una reale e più utile indicazione dell’efficacia delle proprie strategie.

Per una valutazione più completa si possono inoltre calcolare:

  • Turnover Rate, la percentuale di collaboratori che lasciano l’azienda in un determinato periodo per monitorare la stabilità dell’organico e segnalare criticità potenziali (es. team, sedi o ruoli ad alto ricambio);
  • Early Turnover Rate (entro 6-12 mesi), la percentuale di nuove assunzioni che lasciano l’azienda entro il primo anno. È uno degli indicatori più affidabili della qualità dell’onboarding, del job match e dell’integrazione culturale;
  • Voluntary Turnover, distingue tra uscite spontanee (dimissioni) e uscite gestite dall’azienda (licenziamenti, fine contratto) è utile perché un alto tasso di voluntary turnover può indicare disallineamento e insoddisfazione.

Raccogliere dati qualitativi con sondaggi e colloqui di uscita

Accanto ai dati numerici, è essenziale raccogliere feedback qualitativi per comprendere le motivazioni profonde che spingono le persone a restare o ad andarsene.

Gli employee engagement survey – in particolare strumenti come il Net Promoter Score interno (eNPS) – consentono di misurare il livello di soddisfazione e fedeltà dei collaboratori attraverso una semplice domanda: “Con quale probabilità consiglieresti il tuo posto di lavoro a un amico?”. Il valore dell’eNPS offre un’indicazione sintetica ma efficace del clima interno e della qualità dell’esperienza dei dipendenti.

In parallelo, i colloqui di uscita (exit interview) rappresentano un’occasione strategica per raccogliere feedback sinceri da chi ha deciso di lasciare. Se condotti in modo professionale e con un approccio non giudicante, questi colloqui forniscono insight preziosi su elementi critici spesso sottovalutati: scarsa leadership, mancanza di crescita, percezione di inequità o clima tossico. Harvard Business Review sottolinea come le exit interview siano utili non solo per identificare le cause delle dimissioni, ma anche per individuare pattern ricorrenti che possono guidare miglioramenti sistemici [11].

In sintesi, misurare la retention richiede un approccio integrato, che combini dati quantitativi con l’ascolto attivo e continuo delle persone. Solo così si può trasformare ogni dimissione in un’opportunità di apprendimento e crescita per l’organizzazione.

Trattenere i talenti è l’investimento più intelligente

L’Employee Retention non è una semplice risposta al turnover, ma una strategia intenzionale per costruire organizzazioni più solide, resilienti e umane. Trattenere le persone – soprattutto quelle più strategiche – significa proteggere il patrimonio di competenze, garantire continuità e coltivare una cultura aziendale capace di sostenere l’innovazione nel tempo.

Come abbiamo visto, le leve su cui agire sono molteplici: percorsi di sviluppo, retribuzioni e benefit competitivi, leadership autentica, ascolto continuo, equilibrio vita-lavoro, inclusione. Nessuna, da sola, è risolutiva. Ma tutte, se coordinate, possono creare un ecosistema professionale in cui le persone scelgono di restare, crescere e contribuire.

In un mercato in costante trasformazione, le aziende che investiranno in Employee Retention con metodo, visione e ascolto autentico, non solo ridurranno i costi del turnover, ma si assicureranno una forza lavoro più motivata, stabile e orientata al lungo periodo. Perché il vero vantaggio competitivo, oggi, è avere persone che vogliono rimanere.

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